Le domande più frequenti

 
 

SPALLA

Lussazione della spalla: quando si verifica e come si diagnostica (1/2)

La lussazione o sublussazione della spalla è un evento molto doloroso e facilmente riconoscibile perché i movimenti del braccio diventano impossibili e la testa dell’omero – che si può sentire alla palpazione - risulta fuori posto e scivolata sotto l’ascella (lussazione anteriore) o dietro di essa (lussazione posteriore). In genere la lussazione è causata da un trauma accidentale, come un incidente stradale, specie in scooter o in bicicletta, oppure a seguito di un esercizio sportivo o di un gesto violento e inappropriato. Gli atleti che praticano ginnastica artistica, ma anche i giocatori di tennis, i rugbisti o i ballerini professionisti, che sottopongono l’articolazione ad uno sforzo importante, sono maggiormente esposti a questo rischio. Soltanto in casi più rari invece, la lussazione della spalla è determinata da una patologia degenerativa che indebolisce i legamenti ed i tendini. Ma quando si verifica? Si verifica una lussazione, che è cosa ben diversa dalla frattura, quando la testa dell’omero viene completamente dislocata dal suo alloggiamento nella cavità della spalla; si parla di sublussazione, invece, quando la fuoriuscita della testa dell’omero è soltanto parziale. In ogni caso l’evento è contraddistinto dalla comparsa immediata di intenso dolore e dall’impossibilità di muovere il braccio. Oltre alla valutazione dei sintomi, per arrivare ad una diagnosi certa di lussazione, è opportuno recarsi al pronto soccorso dove il medico specialista in Ortopedia e Traumatologia eseguirà una serie di manovre per valutare le possibilità di movimento del braccio e della spalla. Per essere aggiornato su questo argomento, non perdere il prossimo approfondimento!

Lussazione della spalla: terapia, cura e riabilitazione (2/2)

Per confermare la diagnosi di lussazione o di sublussazione della spalla il medico del Pronto Soccorso effettuerà un esame fisico sul paziente, che potrebbe essere sottoposto anche ad ulteriori accertamenti tra cui radiografia, per escludere eventuali danni ossei, e poi Tac e risonanza magnetica per fornire informazioni più dettagliate sullo stato di salute dei legamenti e delle articolazioni. Come si interviene in caso di lussazione della spalla? È bene sapere che la riduzione della lussazione è una procedura standard nella quale il medico ortopedico, attraverso alcune manovre manuali, cerca di riportare la testa dell’omero “scivolata” nella sua posizione normale. Dopo l’evento traumatico il braccio dovrà stare a riposo, fasciato per 30 giorni e all’occorrenza, per lenire il dolore, al riposo sarà abbinata una terapia antinfiammatoria. Nel caso si tratti di un primo episodio la terapia è conservativa e, dopo il periodo di immobilizzazione, è consigliabile un percorso di riabilitazione volto ad ottenere un recupero articolare ottimale. Quando si rende necessario l’intervento chirurgico? Quando l’instabilità articolare persiste e le lussazioni sono recidive, allora, bisogna prendere in considerazione la possibilità di sottoporsi ad intervento chirurgico di stabilizzazione dell’articolazione: un intervento che, in base all’età del paziente e alla sua storia clinica, può essere eseguito in artroscopia o a cielo aperto in funzione dei danni articolari, delle richieste funzionali del paziente, dello sport praticato e secondo altri parametri che il chirurgo valuta prima di proporre l'intervento.

Frozen shoulder (spalla congelata), che fare? (1/2)

La capsulite adesiva, nota più comunemente con il termine di spalla congelata, è un’infiammazione aspecifica della capsula articolare della spalla caratterizzata da una progressiva perdita dell’articolarità a causa della perdita di flessibilità della capsula. Può essere idiopatica o secondaria a traumi dell’articolazione e interventi chirurgici; l’incidenza di tale disordine è maggiore fra i 40 e i 60 anni e fra le donne che hanno un rischio doppio rispetto agli uomini. Fattori di rischio sono principalmente diabete mellito insulino, ipotiroidismo e malattia di Parkinson. La causa ha origine infiammatoria: per la maggioranza dei casi è dovuta ad una borsite oppure ad artrite reumatoide, sindrome della spalla di Milwaukee, tendinite calcifica, postmastectomia. Fra i sintomi e segni clinici si riscontrano dolore, impedimento di normali movimenti della spalla e progressiva perdita di articolarità in assenza di traumi noti.

Frozen shoulder (spalla congelata), che fare? (2/2)

La diagnosi per chi è affetto da capsulite adesiva è spesso difficile: per evidenziare depositi calcifici o escludere altre patologie può essere utile sottoporsi a radiografie in proiezioni standard. La riabilitazione consiste in attività finalizzate al recupero dell’articolarità: il trattamento prevede massaggi e con esercizi fisici che lentamente abituano nuovamente la persona al movimento divenuto più problematico. Utile associare anche una terapia farmacologica per cui, generalmente, si somministrano corticosteroidi. Il processo di recupero è solitamente lento e può richiedere più di due anni. Dopo dodici mesi però, se i sintomi non dovessero migliorare con il trattamento, può essere indicata la mobilizzazione in anestesia o l’artrolisi artroscopica.

ANCA

Displasia dell’anca: cos’è e come trattarla

La displasia dell'anca, nota anche come lussazione congenita dell’anca, è un termine medico che indica una malformazione congenita che porta gradualmente la testa del femore a dislocarsi dalla cavità acetabolare, destinata a contenerla e a farla ruotare al proprio interno. La maggior parte delle persone con displasia dell’anca sono nate in questa condizione. Si tratta dunque di un difetto congenito, dovuto ad un anomalo sviluppo dell'articolazione coxo-femorale durante la gestazione. L'instabilità dell'anca, monolaterale o bilaterale, può impedire al bambino di camminare correttamente e, se non diagnosticata velocemente, può portare alla lussazione. Quali sono i fattori che contribuiscono allo sviluppo di questa patologia? Prima di tutto la storia famigliare, madri con il bacino molto stretto, e con lassità legamentosa. La buona notizia però è che con una diagnosi tempestiva è possibile correggere questa condizione. Per confermare una diagnosi di displasia dell'anca nei piccoli, fino a 4-6 mesi di età, si utilizza l’ecografia, un esame che offre un notevole vantaggio rispetto alla radiografia perché le immagini possono essere prese con l'anca in movimento.

Displasia dell’anca: come intervenire?

Il trattamento della displasia dell’anca varia a seconda della gravità della condizione. Nei casi lievi, e quando è diagnosticata nei primi mesi di vita del bambino, è sufficiente applicare sul pannolino un cuscino divaricatore. Questo dispositivo, infatti, immobilizza le anche in una posizione corretta e fisiologica, permettendo la guarigione della displasia. Se, invece, la diagnosi sopraggiunge quando il bimbo ha già imparato a camminare il trattamento è più complesso, i risultati non sono sempre positivi e nelle forme più gravi è necessario ricorrere all’intervento chirurgico. In linea generale, una displasia congenita dell’anca trattata precocemente e in modo adeguato solitamente non lascia strascichi. Se invece non è trattata per tempo o correttamente nel corso degli anni si possono manifestare problematiche di vario tipo, come dolore, zoppia e artrosi pregiudicando conseguentemente la qualità di vita della persona. 

Artrosi dell’anca: un italiano over 60 su quattro ne soffre

Si chiama coxartrosi o più semplicemente artrosi dell’anca ed è una patologia cronico - degenerativa che interessa l’articolazione coxofemorale, ovvero quella tra bacino e femore. In pratica, se un’articolazione dell’anca sana funziona come una macchina ben oliata, ciò non avviene in presenza di questa malattia dove il normale scorrimento delle superfici della testa del femore e della cavità acetabolare viene compromesso da una precoce usura della cartilagine che si assottiglia sempre più, causando in qualche caso anche difficoltà nella normale deambulazione. La coxartrosi può essere di tipo idiopatico, ovvero quando insorge in tarda età per motivi sconosciuti (in Italia ne soffre un ultrasessantenne su quattro), oppure secondaria, cioè quando compare in seguito a traumi dell’anca, fratture, infezioni articolari o malattie congenite. Come si manifesta? Attraverso il dolore che è il primo sintomo/campanello d’allarme. Per le persone affette da artrosi dell’anca, quindi, semplici movimenti come scendere dall’auto o accavallare le gambe possono diventare difficoltosi. Fare una diagnosi accurata e precoce è importante perché consente al medico di individuare la severità del quadro sintomatologico e al paziente di intraprendere il percorso di terapia più adeguato. 

Coxartrosi: dalla diagnosi alla cura

Nel precedente approfondimento abbiamo spiegato che cos’è la coxartrosi, come insorge e quali sono i sintomi con i quali generalmente si manifesta; primo fra tutti il dolore, così diffuso negli stadi più avanzati da compromettere, in alcuni casi, anche movimenti apparentemente semplici come sedersi o infilarsi calze e scarpe. Ecco che allora una diagnosi precoce dell’artrosi dell’anca permette al paziente di rallentare il decorso della malattia e trovare sollievo grazie al percorso di cura più adeguato. Ma come si diagnostica la coxartrosi? Grazie ad una serie di esami obiettivi effettuati in ambulatorio, l’ortopedico visiterà l’anca, valutando il dolore, le possibilità di movimento e la forza muscolare del paziente. In caso lo ritenga necessario, lo specialista chiederà al malato di effettuare una radiografia per analizzare le eventuali deformazioni dell’articolazione, in particolare la riduzione dello spazio tra le due estremità o la presenza di escrescenze o cisti ossee. Per approfondire l’analisi della problematica possono anche essere prescritte indagini diagnostiche come TAC o risonanza magnetica, tutto per valutare il percorso di cura migliore per le criticità del malato.

Curare la coxartrosi per vivere meglio si può

Cosa si può fare per rallentare, frenare o prevenire la coxartrosi?Le tecniche per curare l'artrosi sono tante e consentono, a seconda del problema, di individuare un percorso personalizzato per ogni paziente. Nella fase iniziale della malattia si può lavorare innanzitutto sul proprio stile di vita. L’artrosi dell’anca, soprattutto nella sua fase meno aggressiva, si può trattare riducendo ad esempio il peso corporeo, praticando ginnastica ogni giorno per correggere posizioni sbagliate, rinforzando la muscolatura e recuperando la mobilità articolare. Importante sapere che antidolorifici o antinfiammatori possono certamente dare sollievo dal dolore, ma si tratta di un semplice palliativo; come per altre forme di artrosi, infatti, questi farmaci non sono in grado di limitare né tantomeno invertire il progredire della malattia. In seguito alla diagnosi, il medico potrebbe anche consigliare delle infiltrazioni, ovvero iniezioni intra-articolari di agenti condroprotettori, come l'acido ialuronico, capace di rallentare la distruzione della cartilagine e frenare il decorso della patologia. Molto utili anche le tecniche che fanno leva sull’applicazione di calore (diatermia, ultrasuoni, termofori) e le innovative terapie laser, trattamenti con cellule staminali o infiltrazioni di radioguidate. Nel caso di un’artrosi dell’anca in fase avanzata invece, il trattamento più efficace è quello chirurgico.

Coxartrosi e protesi dell’anca: come e quando intervenire?

Come e quando è necessario ricorrere alla protesi dell’anca? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi? Quando l’artrosi all’anca è in uno stato avanzato o ci sono fratture del collo del femore, non resta che la protesi. Si tratta di uno degli interventi ortopedici più frequenti: in Italia vengono effettuati circa 75mila impianti all’anno. Un tempo, i pazienti erano costretti all'immobilità, dovendo restare a letto per diverse settimane. Oggi, invece, grazie alle attuali tecniche chirurgiche, alle nuove protesi e ai protocolli di gestione preoperatoria (Rapid Recovery), possono riprendere a muoversi, già il giorno stesso dell'intervento. Ovviamente all’inizio, amiche fidate saranno le stampelle, ma trascorso il periodo di degenza e sostenuto un adeguato percorso fisioterapico, in un mese si potrà tornare alla normale vita quotidiana.

Chirurgica protesica dell’anca con accesso anteriore mininvasivo

La via di accesso anteriore mininvasiva nella chirurgia protesica dell'anca ha prodotto numerosi vantaggi rispetto alle vie d'accesso tradizionali: dal risparmio dei tessuti muscolari alle minori perdite ematiche; dall'incremento della stabilità articolare post-operatoria con bassi tassi di lussazione alla diminuzione del dolore post-operatorio; dalla riabilitazione più precoce e semplice al ricovero più breve, sino al notevole miglioramento del risultato estetico, sopratutto per le donne più giovani, dal momento che la cicatrice chirurgica, eseguita con la tecnica d'incisione cutanea “bikini”, può essere facilmente nascosta sotto il costume da bagno".

Chirurgia protesica dell'anca: differenze tra le vie d'accesso tradizionali e quella anteriore mini-invasiva?

Le vie di accesso chirurgiche convenzionali (antero-laterale, laterale diretta, trans-trocanterica, postero-laterale e anteriore classica) prevedono la resezione o lo scollamento più o meno ampi di alcuni muscoli e tendini, mentre la via di accesso anteriore mininvasiva permette di raggiungere l’articolazione coxo-femorale passando per un intervallo intermuscolare (fra tensore della fascia lata e sartorio), quindi divaricando i muscoli senza danneggiarli. L’accesso anteriore non è un tipo di intervento ma è una delle vie di accesso all’articolazione coxo-femorale a disposizione del chirurgo ortopedico; l’operatore sceglierà quindi, di volta in volta, la via d'accesso più idonea al paziente in esame in base a caratteristiche anatomiche e patologiche dell’anca da operare, al peso del paziente, al tono e al trofismo muscolare. E’ altresì vero che, con l’esperienza, il chirurgo si sente incoraggiato ad utilizzare questa via di accesso all’anca in casi sempre più complessi (anche nelle revisioni di protesi d’anca fallite).

Chirurgica protesica dell’anca con accesso postero-laterale

Dopo aver descritto la via di accesso anteriore mininvasiva nella chirurgia protesica dell'anca, parliamo ora di quella postero-laterale, storicamente la più diffusa e quella più sperimentata, che ha dei vantaggi legati alla rapidità d’esecuzione dell’intervento, al fatto di poter impiegare qualsiasi modello protesico per utilizzo, al fatto di poter essere la via prescelta per le revisioni protesiche e per gestire le eventuali complicanze perioperatorie. Si tratta, infatti, di una via d’accesso che, abbinata all’utilizzo di tecnologie recenti, permette di avere un bassissimo tasso di lussazioni e, associata ai protocolli di fast recovery, consente di ottenere risultati clinici sovrapponibili a quelli ottenuti con l’accesso anteriore. È un’alternativa classica, per intenderci, ma che viene di volta in volta rivisitata. La differenza tra questi due diversi approcci chirurgici è soltanto nelle precauzioni che si hanno nei primi due mesi soprattutto quando si interviene con l’accesso postero-laterale. ll chirurgo, in ambito di chirurgia protesica dell’anca, ha quindi la possibilità di scegliere e decidere di volta in volta la via d’accesso più indicata per il paziente.

Dolore notturno alla spalla? Può essere la spia di un problema alla cuffia

La cuffia dei rotatori è il complesso dei quattro muscoli con i rispettivi tendini che concorre al movimento dell'articolazione della spalla nei vari piani dello spazio e che tiene stabile l'articolazione fra la scapola e l'omero. Una sua lesione è dovuta alla rottura completa o parziale di uno dei tendini che la costituiscono. Si tratta di una patologia molto comune, soprattutto fra gli anziani, che oltre a causare dolore, determina rilevanti limitazioni funzionali. Quali sono le cause della rottura della cuffia? La sua lesione può avvenire in seguito ad un evento traumatico (impatto, movimento errato, carico eccessivo) o a causa di fenomeni degenerativi, favoriti certamente dall’invecchiamento e dai continui stress a cui è sottoposta l’articolazione. Come si manifesta? In caso di evento traumatico con un forte dolore localizzato nella parte anteriore della spalla che può irradiarsi all’intero braccio soprattutto in seguito a determinati movimenti; in caso di condizione cronica, invece, con un dolore più intermittente, frequente nelle ore notturne, accompagnato da una maggior difficoltà nel compiere movimenti e dall’impossibilità di sollevare pesi. Come si diagnostica? Attraverso l’esame fisico seguito, per conferma, da una risonanza magnetica. Quali sono i trattamenti consigliabili in questi casi? L’approccio chirurgico viene considerato come prima opzione solo in caso di rottura totale in pazienti giovani; negli altri casi, invece, si può ottenere un miglioramento della sintomatologia grazie a specifici trattamenti riabilitativi.

L’artroscopia come tecnica di elezione nella chirurgia della spalla

L’artroscopia, nata inizialmente come indagine diagnostica, è oggi diventata una procedura terapeutica. Questo grazie allo sviluppo della tecnologia che continua ad apportare continui miglioramenti negli strumenti utilizzati dai chirurghi: i progressi tecnologici nella qualità delle fibre ottiche, nella risoluzione del video e nello strumentario artroscopico, insieme al più approfondito studio degli accessi anatomici, infatti, hanno comportato un’evoluzione nell’artroscopia della spalla a partire dalle tecniche diagnostiche fino alle più sofisticate tecniche di trattamento. Come si esegue? Si effettua utilizzando uno strumento chiamato artroscopio, un tubo sottile dotato di lenti di ingrandimento e fibre ottiche collegato a una telecamera che, una volta inserito attraverso piccole incisioni all’interno dell’articolazione, consente di avere su un monitor un’immagine ingrandita di tutte le aree della spalla. Quali patologie della spalla si possono curare ricorrendo all’artroscopia? Si possono trattare le più comuni affezioni della spalla quali lussazioni abituali, rottura della cuffia dei rotatori, tendinopatia calcifica, instabilità di spalla, ecc. Quali sono i vantaggi dell’artroscopia? Mininvasività, basso rischio di infezioni, tempi di ricovero molto ridotti (trattandosi di una chirurgia svolta generalmente in anestesia loco-regionale), minor dolore post-operatorio, miglior risultato estetico (data l’assenza di cicatrici) e la possibilità di trattare, come detto, quasi tutte le patologie articolari della spalla.

GINOCCHIO

Dolore al ginocchio: la malattia di Osgood-Schlatter

Tipica dei ragazzini, soprattutto maschi, tra i dieci e i sedici anni che praticano molta attività fisica. La malattia di Osgood-Schlatter è una forma di osteocondrosi dell’apofisi tibiale anteriore. In parole più semplici si tratta di un processo di tipo degenerativo a carico delle ossa. La tuberosità della tibia, localizzata sotto la rotula, risulta dolente e gonfia, soprattutto quando si fa sport. Quali sono i sintomi? Questa patologia, che spesso compare bilateralmente, si manifesta attraverso dolore e gonfiore. La dolenzia è indotta dalla flessione del tendine che collega il muscolo quadricipite della coscia con la tibia, ecco perché i sintomi si avvertono durante la pratica sportiva, con la corsa o saltando, ma anche quando si salgono le scale. La buona notizia è che la sindrome tende scomparire spontaneamente con la crescita intorno ai diciotto/diciannove anni. Per saperne di più, non perderti il prossimo approfondimento.

Sempre più frequenti le lesioni ai legamenti crociati

Aumenta l’incidenza per l’elevato numero di praticanti ma, fortunatamente, grazie ai moderni trattamenti chirurgici, con tecniche spesso personalizzate a seconda dell’età, del tipo di sport praticato e del livello dell’atleta colpito da tale lesione, unitamente ad un valido programma riabilitativo da impostare in seguito all’intervento chirurgico, tutti possono tornare tranquillamente a praticare attività sportiva dopo un periodo di 6 mesi di recupero. Per evitare inutili rischi e per arrivare preparati all’evento sportivo, come ha ricordato recentemente il Presidente della SIOT (Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia), il Prof. Francesco Falez, è fondamentale fare anche prevenzione. Le misure da adottare sono attuare un allenamento mirato per la forza muscolare, eseguire un programma di allenamento mirato al potenziamento muscolare degli arti inferiori, migliorare la cosiddetta propriocezione degli arti (con esercizi mirati e consigliati da preparatori atletici o fisioterapisti) al fine di ridurre il rischio di infortuni soprattutto con il gesto atletico tipico del calcio (cambi di direzione, contrasti, salti, etc.), non trascurare un buon programma di allungamento muscolare (stretching) per completare un corretto piano di preparazione atletica mirata anche alla prevenzione. Non ultimo rivalutare il ruolo dello specialista in medicina dello sport: fondamentale, in questo senso, individuare con lui potenziali carenze muscolari e tendinee allo scopo di personalizzare il programma di prevenzione.

Un ‘calcio’ agli infortuni

Il numero delle lesioni ai legamenti del ginocchio tra i calciatori è in aumento a causa dell’elevato numero di quanti praticano questo sport. Come ha recentemente ricordato il Prof. Francesco Falez, Presidente della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (SIOT), gli infortuni si registrano infatti a livello amatoriale, tra i semi professionisti e tra i professionisti del “pallone”. Proprio a causa della natura del calcio, che comporta salti, torsioni e cambi di direzione improvvisi, oltre ad un forte impatto fisico, le lesioni legamento crociato anteriore sono un incidente comune sui campi di calcio di tutto il mondo. Un aspetto da non trascurare, infine, è quello della superficie dei terreni di gioco. Se non in buone condizioni, infatti, i campi in sintetico possono rappresentare un maggior rischio per i legamenti dei giocatori, aumentando teoricamente il rischio di lesioni rispetto all'erba naturale. Secondo alcune statistiche, le distorsioni e le rotture del legamento crociato anteriore colpiscono ogni anno circa 150.000 persone, la maggior parte delle quali sono atleti. Si tratta di un tasso di incidenza tra gli infortuni sportivi particolarmente elevato. Fortunatamente la maggior parte di questi infortuni può essere efficacemente trattata grazie a tecniche chirurgiche ormai collaudatissime e ad un percorso riabilitativo corretto, oltre al tentativo di ridurne il rischio con un adeguato programma di prevenzione.

Infortuni sportivi: con la medicina rigenerativa si può evitare il bisturi

Durante l’attività fisica può capitare di infortunarsi. Lo sanno bene gli atleti che dopo aver subito un trauma devono fare i conti con il dolore, la preoccupazione e i difficili tempi di ripresa. Fino a poco tempo fa, per un calciatore ad esempio, subire la rottura del menisco o una lesione del legamento crociato significava decretare la fine o quasi della propria carriera sportiva. La buona notizia è che oggi, grazie ai progressi della riabilitazione ortopedica, è possibile contare su tecniche sempre più efficaci e meno invasive. Una di queste è la medicina rigenerativa, ovvero una disciplina indolore e mininvasiva, che sfrutta le capacità del corpo umano di auto-ripararsi rigenerando tessuti e cellule danneggiate, senza dover ricorrere alla chirurgia classica. Questo consente di trattare traumi, patologie tendinee e dei legamenti, ma anche processi infiammatori e artrosi allo stadio iniziale, tornando velocemente in campo con lo stesso livello di preparazione atletica. In ambulatorio e in anestesia locale è possibile ricorrere ad un trattamento con cellule mesenchimali, ovvero cellule staminali prelevate dal midollo osseo o infiltrazioni di plasma ricco di piastrine.

Frattura della rotula: quando avviene?

La rotula è un piccolo osso rotondo e appiattito, posizionato anteriormente al ginocchio, che consente di correre, camminare, saltare, sedersi o calciare. In caso di caduta o di incidenti stradali la rotula può rompersi. Un caso particolare è il cosiddetto “trauma da cruscotto”, che si verifica quando il guidatore, a causa dell’impatto, va a battere il ginocchio piegato contro la struttura interna dell’auto. Un infortunio serio che può limitare se non addirittura impedire i movimenti. Come si effettua la diagnosi? Tramite radiografia è possibile accertarsi della frattura della rotula, che può essere composta o scomposta. In questo caso l’ortopedico deciderà come intervenire. L’intervento chirurgico è indicato per le fratture scomposte, che sono le più frequenti, mentre se la frattura è composta si può ricorrere ad un intervento conservativo con il gesso o un tutore, che servirà a mantenere il contatto con i frammenti ossei durante il processo di guarigione. Una volta che la frattura sarà guarita è importante per il paziente seguire un percorso riabilitativo per consentire al paziente il totale recupero della mobilità articolare, il rinforzo muscolare e la riduzione della rigidità articolare. 

Il percorso riabilitativo dopo la frattura della rotula

Dopo la frattura della rotula saranno necessari almeno due o tre mesi per poter tornare alle attività quotidiane e ricominciare a fare attività fisica. Il recupero sarà lento e graduale. In questa fase l’ortopedico definirà insieme al paziente un percorso riabilitativo che abbia come obiettivo il recupero dell’attività articolare, il rinforzo muscolare e la riduzione della rigidità articolare dovuta ad una prolungata immobilizzazione del ginocchio. La riabilitazione sarà rivolta al potenziamento del quadricipite femorale, degli adduttori e abduttori. La durata della fisioterapia varia a seconda della persona e generalmente richiede un mese e mezzo di attività costante. Gli esercizi si possono eseguire a casa già nei primi giorni del post intervento per poi proseguire con l’aiuto di un fisioterapista specializzato.

Operare il ginocchio: le tecniche più moderne ed efficaci

Gli infortuni sportivi oppure l’artrosi possono danneggiare la cartilagine del ginocchio, ovvero quel tessuto che funziona da cuscinetto ammortizzatore in grado di salvaguardare le normali funzioni articolari e permettere il movimento. Quando la cartilagine è compromessa, il ginocchio fa male, si gonfia, diventa rigido e scricchiola. Oggi però esistono molte soluzioni innovative e grazie alle moderne tecniche chirurgiche abbinate all’ingegneria tissutale è possibile restituire la mobilità articolare e dire addio al dolore. Quando la cartilagine del ginocchio appare consumata irreparabilmente (con lesioni circoscritte) e le terapie conservative non sono più sufficienti è possibile ricorrere al trapianto di cartilagine eseguibile in artroscopia. Si tratta di un intervento veloce, dura 15 minuti circa e viene effettuato in anestesia locale: attraverso piccole incisioni il chirurgo ortopedico raggiunge l’articolazione malata con uno strumento a fibre ottiche. In seguito pratica delle piccole fratture (microfratture secondo la tecnica sibSteadman) di dimensioni ridottissime dell’osso e libera le cellule staminali al suo interno e, al bisogno, inietta uno speciale gel che fa loro da terreno di coltura e telaio. Nel giro di poche ore, le staminali iniziano a moltiplicarsi e il tessuto cartilagineo comincia a rigenerarsi riparando la lesione.

Menisco, impariamo a conoscerlo

Il menisco è un cuscinetto fibrocartilagineo a forma di mezzaluna, situato tra due superfici articolari all’interno del ginocchio. All’interno di un ginocchio ve ne sono due: uno mediale ed uno laterale. Essendo strutture particolarmente vulnerabili, è frequente che i menischi subiscano delle lesioni, di origine traumatica o degenerativa. Il primo caso riguarda per lo più giovani e sportivi mentre il secondo le persone di una certa età dal momento che insorgono a causa della degenerazione del tessuto meniscale, più fragile e meno elastico nel tempo. Che funzione hanno e a cosa servono? La funzione dei due menischi è fungere da ammortizzatori all’interno del ginocchio. Il loro compito, infatti, è distribuire i carichi del ginocchio in modo più regolare per contribuire alla stabilità rotazionale quando questa articolazione è soggetta a sollecitazioni meccaniche rilevanti come per esempio correre, saltare o cambiare direzione all’improvviso. Proprio in virtù di questo aspetto è facile pensare come possano determinare alcune problematiche col passare degli anni. In genere, il sintomo più frequente è un dolore in corrispondenza della parte mediale o laterale del ginocchio, con conseguente gonfiore e difficoltà nell’appoggiare l’arto per terra. Un fastidio spesso facilitato dall’abitudine di appoggiare il piede sul lato esterno invece che su tutta la pianta. In altre circostanze, invece, si può anche avvertire chiaramente una sorta di 'crac' che può suonare come un campanello d’allarme. Ma come si diagnostica una lesione meniscale? Diagnosticare un problema al menisco non è così scontato: vengono innanzitutto valutate le modalità con cui è avvenuto l’eventuale trauma o il tipo di movimento a cui è associato il dolore lamentato dal paziente. In seguito si effettuano appositi test volti a evidenziare una lesione meniscale: sono numerosi, di vario genere e consistono in specifiche manipolazioni effettuate manualmente sugli arti inferiori del paziente. Qualora lo specialista ravvisasse un sospetto di lesione, occorre sottoporsi ad una risonanza magnetica. Esistono tre diverse tipologie di lesione meniscale: quella radiale, dal bordo del piatto tibiale verso il centro del menisco, quella longitudinale, che segue parallelamente la forma di mezzaluna del menisco, ed infine a flap, quella che parte come lesione radiale ma che si propaga in direzione longitudinale. Quali sono le cure? Per quelle radiali e longitudinali si devono considerare la stabilità della lesione e il tipo di attività praticata. Se si tratta di pazienti non sportivi o sportivi a livello amatoriale e la lesione è stabile, si può intervenire con un trattamento fisioterapico adeguato alla situazione personale. Se, invece, la lesione diventa successivamente instabile, è necessario ricorrere all’intervento chirurgico. Che tipo di intervento si esegue? L’operazione si effettua in day-hospital in artroscopia, cioè con una telecamera e degli appositi strumenti di lavoro inseriti nella parte da trattare attraverso piccole incisioni. In seguito all’intervento, se il menisco lesionato è il mediale, è opportuno avvalersi delle stampelle per la prima settimana, iniziando anche la fisiokinesiterapia e sottoponendo l’arto a carico parziale. In 3/4 settimane circa si torna alle attività del quotidiano. Nel caso di lesione del menisco esterno, invece, i tempi di ripresa sono più lunghi, generalmente 45/50 giorni. In entrambi i casi, comunque, è fondamentale non solo sottoporsi ad uno specifico percorso fisioterapico, ma anche effettuarlo secondo i propri tempi tramite l’aiuto di un fisioterapista qualificato.

Trattamenti innovativi per la cura della gonartrosi

Dolore cronico al ginocchio? Rigidità con compromissione delle più comuni attività quotidiane? Potrebbe trattarsi di una degenerazione della cartilagine causata dalla perdita della normale congruenza delle superfici articolari. Una condizione nota con il termine di gonartrosi, una patologia invalidante che può portare a dolore cronico ma che si può curare con efficacia. Una volta diagnosticata sulla base dell’esame clinico e radiografico, spetta poi allo specialista ortopedico stabilire il percorso di cura più indicato in funzione dell’età del paziente e delle sue aspettative. Negli ultimi anni, fortunatamente, la scienza è venuta in aiuto agli specialisti con molteplici cure innovative e terapie strumentali o fisiche. Per non ricorrere all’intervento chirurgico, solitamente più indicato nei casi di grave deformità e di deficit della deambulazione, esistono molteplici trattamenti conservativi utili nella cura della gonartrosi che possono dare ottimi risultati se costruiti su misura per la tipologia del paziente e del ginocchio da trattare. Per le terapie strumentali si va dalla marconiterapia, totalmente indolore, che sfrutta correnti alternate a frequenze elevatissime producendo calore nella zona interessata dal dolore e risultando efficace nel trattamento delle forme artrosiche, agli ultrasuoni, vibrazioni meccaniche impercettibili che producono calore in profondità, riducendo il dolore e il gonfiore; dalla tecarterapia, che tratta il ginocchio dolorante con una corrente elettrica che va a stimolare i processi riparativi e antinfiammatori naturali con un trattamento mirato alle articolazioni, alla cartilagine e alle ossa, al laser a raggi infrarossi, che produce un effetto antinfiammatorio e antidolorifico attraverso la vasodilatazione e l’aumento del drenaggio linfatico sino alla magnetoterapia, che usa le onde elettromagnetiche a bassa frequenza e intensità agendo da calamita e facendo girare gli ioni positivi e negativi nel corpo. Così facendo accelera il metabolismo, velocizzando l’eliminazione delle sostanze tossiche e l’assunzione di quelle nutritive. Riguardo, invece, alle terapie infiltrative si può ricorrere alla viscosupplementazione con acido ialuronico, opzione sicura ed efficace grazie alla quale introdurre per via intra-articolare questa sostanza presente in elevate concentrazioni nel fluido sinoviale delle articolazioni, alle inflitrazioni con fattori di crescita, grazie alle quali è possibile ottenere un aumento della concentrazione di piastrine autologhe, sostanze capaci di stimolare la proliferazione e la differenziazione cellulare, e alle infiltrazioni di cellule staminali mesenchimali, ricavate dal grasso del paziente, e molto utili per chi soffre di degenerazione della cartilagine.

L'artrosi del ginocchio (1/2)

L’invecchiamento è un processo che induce molteplici modificazioni morfo-strutturali e funzionali a carico dei diversi organi, sistemi ed apparati. Non è un caso, quindi, se la terza età viene comunemente considerata come il periodo degli acciacchi e delle malattie. In particolare, l’artrosi rappresenta ciò, per intenderci, che induce un paziente a rivolgersi ad un ambulatorio dal momento che comporta dei dolori a volte anche molto intensi. L’artrosi di ginocchio, in termine medico gonartrosi, è una malattia estremamente frequente al giorno d’oggi, vuoi per l’invecchiamento naturale della popolazione, vuoi talvolta per la predisposizione genetica o per traumi, spesso non diagnosticati o curati correttamente delle strutture legamentose del ginocchio che ne alterano il corretto funzionamento, vuoi anche per gli eccessivi sovraccarichi legati al peso o ad attività sportive o lavorative particolarmente intense. 

L'artrosi del ginocchio (2/2)

Riprendendo il post dedicato all'artrosi del ginocchio, è bene dire che i sintomi spesso si presentano con gradualità, proprio per la caratteristica di progressività di questa malattia, ma a volte l’insorgenza può essere acuta per il sovrapporsi di un evento scatenante infiammatorio, e comprendono naturalmente il dolore che può essere ben localizzato o diffuso e la limitazione funzionale più o meno intensa, oltre al possibile gonfiore dell’articolazione che, in questo caso, si presenta anche calda al tatto. Il trattamento è, ovviamente, legato alla gravità del quadro clinico, ma anche a quello radiologico in senso lato (Radiografia, TAC, RM) e segue degli algoritmi ben precisi.

Quando le ginocchia scricchiolano…

Alzi la mano a chi non è mai capitato di sentire il proprio ginocchio scricchiolare? Può sembrare una cosa banale, come di fatto lo è, ma se insieme ai rumori (che possono anche protrarsi nel tempo) iniziamo a sentire anche dolore o fastidio allora è bene ipotizzare una visita. Innumerevoli sono le situazioni del quotidiano in cui lo scricchiolio può manifestarsi: facendo le scale, alzandosi dalla sedia o ancora quando ci si abbassa flettendo le gambe. Nulla di preoccupante, le ginocchia a volte fanno rumore senza un apparente motivo. C’è che li descrive come dei ‘pop’ o dei ‘crack’, chi come un crepitio e chi ancora come uno sfregamento. Il rumore secco al ginocchio, se associato a dolore, invece, può essere segno di alcune patologie come l’artrosi, la rottura meniscale o la rottura della cartilagine.

La lesione del legamento crociato anteriore nei bambini e negli adolescenti

Sempre più bambini e adolescenti partecipano a sport organizzati competitivi e questo, negli ultimi anni, ha determinato un significativo aumento dell'incidenza di lesioni del legamento crociato anteriore in queste specifiche fasce d’età. In ambito ortopedico, la lesione del legamento crociato anteriore negli atleti scheletricamente immaturi rappresenta una sfida in quanto la ricostruzione deve preservare la cartilagine di accrescimento del femore distale e della tibia prossimale per evitare i disturbi della crescita.In passato, un atleta scheletricamente immaturo con una lesione del legamento crociato anteriore veniva trattato con un tutore e modifica dell'attività fino alla maturità scheletrica quando, di fatto, avveniva la ricostruzione del legamento in quei soggetti che non riuscivano a compensare all’assenza del legamento con le strutture muscolari e presentavano un grado d’instabilità significativo. Più recentemente, però, le prove hanno dimostrato che una ricostruzione ritardata può portare ad un aumento del danno al menisco e alla cartilagine articolare. Di conseguenza, la ricostruzione precoce è favorita per proteggere il menisco stesso e per consentire una continuità nell’attività fisica. Mentre gli adolescenti, che sono più vicini alla completa maturità scheletrica, possono essere trattati con tecniche standard di ricostruzione, nei bambini bisogna prestare molta attenzione dal momento che la ricostruzione può determinare disturbi della crescita.Proprio in risposta al crescente bisogno di tecniche di ricostruzione del legamento crociato anteriore in individui scheletricamente immaturi, sono state sviluppate tecniche di ricostruzione rispettose del fisico e del benessere fisico. Oltre ai progressi nella tecnica chirurgica, anche la prevenzione di questo tipo di lesione ha suscitato molta attenzione. Il crescente interesse nella prevenzione della lesione del legamento crociato anteriore è correlato, infatti, all'alto rischio di riacutizzazione sia dell'innesto del legamento crociato anteriore, sia del legamento controlaterale, frequente sia nei bambini, sia negli adolescenti. Rapporti recenti indicano che programmi di allenamento neuromuscolari ben progettati possono ridurre il rischio d’incappare in un simile infortunio.

“Aiuto, mi si è girato il ginocchio!”

Frequentemente sportivi professionisti, amatoriali e pazienti tradizionali esordiscono con questa frase quando, a seguito di un infortunio, si recano dal proprio ortopedico di fiducia. A livello medico si tratta di un inconveniente conosciuto con il nome di trauma distorsivo al ginocchio. Accade quando si verifica un meccanismo traumatico abnorme, al di là dei vincoli anatomici dei legamenti, che determina un traumatismo con possibile interessamento o lesione dei legamenti collaterali e crociati ma anche del menisco. È il meccanismo più frequente che si manifesta in particolare in discipline sportive quali il calcio, lo sci e la pallavolo; in sostanza si verifica quando il piede resta fermo a terra e il corpo ruota in maniera anomala. Un consiglio utile in questi casi è recarsi prontamente al Pronto Soccorso per escludere, tramite radiografia, eventuali fratture che a volte possono essere presenti e, in seguito, se il pericolo frattura fosse scongiurato, è opportuno iniziare quanto prima un protocollo rieducativo e riabilitativo.

Ho rotto il crociato e adesso?

Il legamento crociato è una struttura articolare che contribuisce alla stabilità del ginocchio. Può capitare che si verifichi una sua lesione, soprattutto durante attività sportive nelle quali sono richiesti movimenti rapidi, torsionali e spostamenti laterali. L'indicazione chirurgica viene data a seconda delle richieste di ciascun paziente. Non è un obbligo, infatti, ricorrere necessariamente all’intervento per stare meglio ma è certamente consigliabile per prevenire lesioni ad altre strutture secondarie che hanno il medesimo ruolo di stabilizzazione del ginocchio come per esempio i menischi, le cartilagini e gli altri legamenti per quei pazienti che intendono riprendere completamente le attività sportive senza rinunce. Oggi l’età massima del paziente candidato alla chirurgica è un’età che si sta spostando sempre più in là nel tempo anche perché le attività sportive in cui sono coinvolti gli adulti sono sempre più frequenti. Ciò non toglie che colui che rinuncia all'intervento chirurgico può intraprendere un percorso rieducativo di prevenzione; a questi pazienti, però, è doveroso consigliare attività sportive protette, con basso rischio distorsivo. Questo gruppo di pazienti è ormai molto ristretto perché chi è alle prese con questo infortunio sceglie di operarsi per tornare in piena forma alla pratica dell’attività sportiva prescelta, confortato dai risultati positivi del miglioramento della tecnica chirurgica avvenuta negli ultimi anni.

Quale intervento chirurgico è indicato per la lesione del legamento crociato anteriore?

La ricostruzione artroscopica dei legamenti crociati anteriori con il trapianto autologo di tendini è la tecnica chirurgica oggi più diffusa per il trattamento della rottura del legamento crociato anteriore. In questo intervento il chirurgo sostituisce il legamento crociato anteriore rotto con l'innesto di tendine, generalmente tramite il trapianto autologo (attraverso lo stesso organismo) del tendine del muscolo semitendinoso e gracile, il quale viene prelevato durante l'intervento dalla loggia posteriore della coscia. Scopo di questa operazione è da un lato ripristinare un'accettabile stabilità articolare e dall'altro diminuire il rischio di complicazioni postume dovute ad un'eventuale instabilità cronica del ginocchio che può comportare lesioni dei menischi e/o un'usura più significativa della cartilagine. Si tratta di un intervento efficace sia per lo sportivo professionista, sia per l’amatore. Con la chirurgia artroscopica, inoltre, si trattano con successo anche le più diffuse patologie articolari, dalle lesioni meniscali a quelle cartilaginee associate.

Dopo l’intervento per la ricostruzione del crociato quale percorso di fisioterapia va seguito?

Una volta eseguito l’intervento di ricostruzione artroscopica dei legamenti crociati anteriori è opportuno seguire un percorso riabilitativo che mediamente si conclude in 5/6 mesi. Generalmente si tratta di un iter fisioterapico che suddivido in fasi e obiettivi che, se non raggiunti, possono far allungare o accorciare il tempo di guarigione. Durante il primo mese è opportuno utilizzare le stampelle con carico a tolleranza (con eventuale utilizzo di tutore se presenti lesioni aggiuntive); la ripresa della corsa generalmente avviene tra il 60° e il 90° giorno mentre il ritorno alle attività aerobiche avviene dopo il 90° giorno in cui si ricomincia anche il lavoro sul campo con la ripresa graduale del gesto sportivo.

ORTOPEDIA IN GENERALE

Malattia di Paget: che cos’è?

La malattia di Paget, nota anche come osteite deformante o morbo di Paget è una malattia metabolica ereditaria che colpisce le ossa. Conosciuto già nell’antichità è uno dei principali disordini del metabolismo scheletrico, secondo per frequenza solo all’osteoporosi. Causa indebolimento, ingrossamento del tessuto osseo e deformazione. All’origine del morbo c’è un’alterazione dei normali processi di formazione e assorbimento dell’osso. Le ossa risultano più grosse, ma allo stesso tempo fragili e poco calcificate. In questo modo si verificano artrosi, fratture, dolore e deformità. Purtroppo l’origine della patologia è ancora confusa, ma si ipotizza che il morbo insorga per infezione virale da paramyxovirus o predisposizione genetica. Si tratta di una patologia cronica e invalidante che può colpire fino all’1% dei soggetti over 50, con una maggior incidenza negli uomini. Una complicanza rara, ma temibile della malattia di Paget è la degenerazione tumorale in osteosarcoma. 

Come si manifesta la malattia di Paget?

La manifestazione più comune del morbo è l’aumento di volume delle ossa, in particolare quelle del cranio, degli arti inferiori e della colonna vertebrale accompagnato da forti dolori, calo dell’udito e vertigini. Inoltre a causa dell’indebolimento osseo, i pazienti affetti da questa patologia possono facilmente avere difficoltà a muoversi o a camminare ed incorrere in frequenti fratture. La diagnosi di malattia di Paget arriva attraverso la radiografia delle zone interessate, confrontata con la scintigrafia ossea e gli esami del sangue che rilevano l’incremento di un enzima, la fosfatasi alcalina, coinvolta nella crescita del tessuto osseo. Nei pazienti colpiti, il trattamento farmacologico è consigliato per lenire i dolori. Attualmente, i farmaci maggiormente utilizzati sono i bifosfonati, potenti inibitori del riassorbimento osseo, che consentono di controllare la malattia e ridurre il dolore ed altri sintomi. Le eventuali complicazioni si avvalgono spesso un trattamento specifico, come ad esempio la terapia per le manifestazioni dolorose, anti-infiammatori per decomprimere le radici nervose, solo in ultimo, per correggere le deformità, gli interventi chirurgici.

Spondilite anchilosante: che cos’è e come diagnosticarla?

La spondilite anchilosante è una patologia infiammatoria cronica reumatica, che coinvolge principalmente la colonna vertebrale, rendendola rigida e causando anche difficoltà nei movimenti. Nelle forme più gravi la colonna vertebrale si fonde formando una struttura unica, impedendo al paziente di camminare e svolgere i più semplici gesti, come alzare la testa al cielo. Più frequente negli uomini che nelle donne, colpisce circa l’1% della popolazione. Anche se le cause della malattia sono ancora sconosciute, stando agli ultimi studi, sembra che il responsabile della sua insorgenza sia un gene coinvolto nell’attivazione del sistema immunitario contro le articolazioni, che riconoscendole erroneamente come materiale estraneo scatena l’infiammazione della spondilite anchilosante. In genere i primi sintomi si manifestano in età giovanile, tra i 20 e i 40 anni di età. Il più precoce e tipico sintomo è la lombalgia infiammatoria, un dolore in sede lombo-sacrale che può anche estendersi ad altre zone del corpo (dorsale e cervicale). Il dolore si associa molto spesso ad uno stato di rigidità mattutino che tende a migliorare con il movimento e non con il riposo. In questo caso, la tradizionale radiografia del bacino e della colonna vertebrale rimane l’esame principale a cui sottoporsi, nonostante le alterazioni della patologia diventino visibili solo dopo anni dall’esordio clinico. Per una diagnosi precoce è utile eseguire una risonanza magnetica nucleare. 

Spondilite anchilosante: come si cura?

Per contenere le conseguenze dell’evoluzione della spondilite anchilosante, effettuare una diagnosi precoce è molto importante. Per questo, in caso di dolore cronico a livello lombare e in caso di rigidità alla colonna vertebrale, è consigliabile sottoporsi ad una visita medica, ad esami del sangue e ad alcuni accertamenti radiografici. Tuttavia è importante sapere che per la spondilite anchilosante non esiste una cura definitiva: il trattamento da adottare in base alla gravità della condizione utilizza l’impiego di farmaci in grado di ridurre l’infiammazione e il dolore. Il primo approccio terapeutico avviene con farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans) e COX-2 selettivi. Inoltre, negli ultimi dieci anni, un apporto fondamentale alla cura è giunto dall’uso dei farmaci biotecnologici, molto efficaci nel controllo dei sintomi spinali e periferici dell’infiammazione e nel bloccare o rallentare l’evoluzione dei danni strutturali. Ai pazienti affetti da spondilite anchilosante si consiglia sempre di affiancare al trattamento farmacologico anche la fisioterapia e la riabilitazione, che ha come obiettivo primario la riduzione del dolore e della rigidità e il mantenimento della capacità motoria.

Il futuro delle ossa si costruisce da bambini

Muovere i primi passi, per poi camminare, correre e giocare: fin dalla nascita, il corretto sviluppo della struttura ossea è indispensabile allo svolgimento di qualsiasi attività. Risulta quindi fondamentale, fin da bambini, prendersi cura del sistema osteoarticolare. Questo l’appello della SIOT, Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, che nel corso di un recente convegno ha puntato i riflettori su alcune patologie che, se non curate nell’infanzia, rischiano di compromettere la salute futura dell’intero scheletro. Dalla scoliosi alla lordosi, dalla lussazione congenita dell’anca al ginocchio valgo fino al piede piatto: sono solo alcune delle condizioni patologiche che richiedono un intervento tempestivo in età infantile. Come è stato ricordato è fondamentale, per qualsiasi disturbo interessi le ossa e le articolazioni, rivolgersi allo specialista ortopedico che può curare le alterazioni dell’apparato muscolo-scheletrico causate da traumi o patologie, permettendo di mantenere o recuperare una buona qualità di vita ad ogni età. Fin dai primi passi è possibile incorrere in pericoli comuni che però possono arrecare traumi leggeri o invalidanti. Da non sottovalutare, inoltre, come alcuni di questi disturbi possano essere evitati grazie all’adozione di posture e comportamenti corretti fin dalla primissima infanzia. 

Prendersi cura del sistema osteoarticolare sin da bambini

Continuando a parlare del recente convegno proposto dalla SIOT, Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, che ha puntato i riflettori su alcune patologie che, se non curate nell’infanzia, rischiano di compromettere la salute futura dell’intero scheletro, è bene ricordare come le posture scorrette (che possono degenerare con l’età) sono spesso associate all’eccessivo uso di dispositivi tecnologici. L’uso di tablet, pc, smartphone è, ad esempio, responsabile in moltissimi casi della cifosi, condizione che interessa la colonna vertebrale del bambino, maschio o femmina che sia, che non riesce a mantenere la posizione eretta del tronco e delle spalle sia seduto, sia in piedi. È del 700% l’aumento di casi di cifosi registrati nelle scuole medie inferiori negli ultimi dieci anni: un dato davvero allarmante. Fondamentale, in questi casi, è una diagnosi precoce. Mentre in fase iniziale è possibile intervenire con rieducazione motoria e ginnastica appropriata, in fase avanzata è necessario far indossare al bambino il busto ortopedico. Nel caso in cui la diagnosi arrivi troppo tardi, poi, si deve ricorrere alla chirurgia. Se la ginnastica medica è il rimedio della cifosi diagnosticata in fase iniziale, non si può affermare lo stesso per la scoliosi, patologia causata da una predisposizione genetica caratterizzata da una deformità a ‘S’ della colonna vertebrale che, di solito, colpisce le bambine tra i 10 e i 14 anni di età. In questo caso, infatti, la SIOT sottolinea come l’unico trattamento appropriato consista nell’applicazione del busto ortopedico. A dover indossare un tutore sono, invece, i bambini più piccoli colpiti da una displasia congenita dell’anca, patologia che si sviluppa durante la vita intra-uterina e che porta a un’alterazione progressiva dei rapporti tra la testa del femore e l’acetabolo. Con un’incidenza di 1 su 1.000 nati, più frequentemente nel sesso femminile (rapporto 6 a 1) e nel 45% dei casi bilateralmente, la displasia o lussazione dell’anca è una delle patologie dello scheletro più frequenti. Se la diagnosi viene posta precocemente, il trattamento viene eseguito mediante l’utilizzo di un tutore, statico o dinamico, che mantiene le anche flesse (90-100°) ed abdotte (50-60°) e permette di mantenere centrata la testa del femore all’interno dell’acetabolo risolvendo in pochi mesi il quadro di displasia acetabolare e di instabilità articolare. 

Che cos’è l’artrite reumatoide?

L’artrite reumatoide è una malattia infiammatoria cronica autoimmune che causa dolore, gonfiore e rigidità articolare. Al suo esordio colpisce le piccole articolazioni, come quelle dei polsi, delle dita di mani, piedi e caviglie per poi estendersi con il passare del tempo a spalle, gomiti e ginocchia. Con il progredire della patologia, nelle zone di attrito si possono anche sviluppare noduli sottocutanei: alterazioni asintomatiche, non dolorose, ma che oltre al danno estetico possono rendere difficoltosi semplici gesti quotidiani come indossare le scarpe. Più frequente nelle donne rispetto agli uomini, l’artrite reumatoide insorge solitamente tra i 40 e i 60 anni. Al momento la causa della malattia è ancora sconosciuta ma le ultime ricerche scientifiche evidenziano alcuni fattori che risultano scatenanti nell’attivazione e nel mantenimento dell’infiammazione. La predisposizione genetica e alcune infezioni virali sembrano giocare un ruolo importante nell’insorgenza della malattia, ma anche lo stress, una cattiva igiene orale e il fumo di tabacco pare espongano al rischio.

Artrite reumatoide: diagnosi e trattamento

Se si sospetta l’insorgenza della malattia, una visita preliminare dallo specialista e dei semplici esami del sangue sono sufficienti per formulare la diagnosi di artrite reumatoide. Purtroppo, come avviene per l’artrosi, non esistono cure specifiche per questa patologia, ma negli ultimi 25 anni grazie alla ricerca, il trattamento è migliorato offrendo ai pazienti un buon controllo dei sintomi e la possibilità di continuare a lavorare e a dedicarsi ai propri hobby senza modificare il proprio stile di vita. Qualora la diagnosi fosse confermata il medico potrebbe consigliare la somministrazione di farmaci FANS per alleviare i dolori e indirizzare il paziente verso trattamenti non farmacologici, come la fisioterapia. Gli esercizi attivi, infatti, aiutano a rafforzare e a sostenere la muscolatura, incentivano la mobilità articolare e riducono la progressione patologica. Nei casi più gravi, si utilizza la terapia cortisonica, l'immunosoppressione ed, infine, la chirurgia che rappresenta l'ultima opzione terapeutica nel tentativo disperato di correggere il danno articolare.

Dal metallo al titanio: quali materiali per le protesi ortopediche?

Sono trascorsi quasi 60 anni da quando Sir John Charnley impiantò la prima protesi d’anca. Da quel primo intervento molte cose sono cambiate, prima di tutto la qualità dei materiali utilizzati. Le prime protesi, infatti, erano costituite prevalentemente da metalli che garantivano resistenza meccanica ma erano inevitabilmente usurabili; oggi, invece, in base al caso clinico, si cerca di prediligere materiali tecnologicamente più evoluti e biocompatibili che abbassano il rischio di rigetto. Si tratta di protesi nuove così longeve da ridurre il rischio di revisione. Attualmente i materiali maggiormente utilizzati nelle protesi d'anca, spalla e ginocchio sono leghe di titanio, ceramica e polietilene. In particolare il titanio ha molti pregi: elevata robustezza, bassa densità, rigidità, leggerezza, una buona resistenza alla corrosione, oltre ad essere un materiale biocompatibile e atossico. 

Come scegliere il materiale della protesi?

Restando in tema di materiali protesici, è bene chiarire che la scelta della protesi più appropriata spetta al chirurgo ortopedico che, di volta in volta, valuta la soluzione migliore in considerazione all’età del paziente, al suo peso corporeo, alle eventuali allergie che presenta, facendo attenzione alla patologia per la quale si richiede l’intervento. Un paziente giovane, ad esempio, avrà bisogno di un impianto durevole e possibilmente non cementato in modo da rimandare il più possibile l’intervento di sostituzione: in questo caso, quindi, il chirurgo prediligerà materiali all’avanguardia fra cui il titanio o la ceramica. Quest’ultima in particolare, pur essendo molto resistente all’usura, è più facilmente soggetta a rotture nel caso in cui il paziente dovesse subire una caduta o un incidente di una certa entità. In ogni caso, secondo recenti studi biomeccanici, il titanio, la ceramica e il polietilene vitaminizzato risultano attualmente tra i più consigliati materiali utilizzati che possono durare anche 30 anni.

Al diavolo la borsite (1/2)

La borsite è una condizione dolorosa che interessa le piccole sacche ripiene di liquido, note col termine di “borse”, la cui funzione è proteggere le articolazioni e altre parti anatomiche. Proprio in virtù della loro particolare collocazione, ideale per fungere da ammortizzatori naturali ma anche per armonizzare il movimento, si possono formare tra ossa e tendini ma talvolta anche tra diversi piani tendinei, fasciali e muscolari. La protezione che assicurano alle molteplici strutture interessate consente di scongiurare traumi e usura che comporrebbero altrimenti infiammazione e dolore. Ma quali borse sono più esposte al rischio di infiammazione? Sicuramente quelle della spalla, del gomito, dell’anca e del ginocchio, articolazioni più spesso sollecitate. Quando si infiamma il liquido sinoviale presente al loro interno, si va incontro ad una condizione patologica, chiamata appunto borsite, con sintomi dolorosi che rendono quanto meno problematico il movimento. È opportuno sottolineare come esistano due tipologie di borsite: quella infiammatoria e quella emorragica. Le prime consistono in uno stato infiammatorio di questi piccoli sacchetti ripieni di liquido, per lo più favorito a causa di movimenti ripetuti che sottopongono l’articolazione a sollecitazioni e sfregamenti continui. In questa tipologia rientrano anche le borsiti originate dal deposito di cristalli di urea in pazienti affetti da iperuricemia e quelle settiche causate da un’infezione batterica. Di natura emorragica, invece, sono le borsiti originate in seguito ad un trauma per cui si determina uno stravaso di sangue per rottura di vasi con conseguente raccolta ematica all’interno della borsa stessa. Ma quali sono le cause che favoriscono la loro insorgenza? Stress meccanici, patologie sistemiche (come artrite reumatoide o gotta) che possono interferire con la composizione del liquido sinoviale, infezioni batteriche o virali che possono attaccare le borse, traumi, come cadute e incidenti in cui la pressione violenta esercitata sulle borse ne può provocare la rottura o l'irritazione, invecchiamento e lavori o hobby usuranti, che prevedono sempre lo stesso movimento, sono fattori di rischio che moltiplicano la probabilità di soffrire di borsite. Per conoscere i sintomi con cui si manifesta, come viene diagnosticata e come viene trattata, non perderti i prossimi post.

Al diavolo la borsite (2/2)

Restando in tema di borsite, anche solo per poterla inquadrare meglio, è bene soffermarsi sui sintomi con cui generalmente si manifesta. I pazienti affetti da questa dolorosa condizione clinica lamentano il più delle volte un dolore persistente (che si amplifica con il movimento o la pressione), un rigonfiamento all’altezza dell’articolazione interessata dalla borsa ed eventuali eruzioni cutanee quali arrossamento e lividi. Cosa è utile fare per prevenire questo fenomeno? Per coloro che soffrono abitualmente di questo problema è opportuno osservare alcuni, semplici, accorgimenti come per esempio evitare la pressione sui gomiti quando ci si appoggia alla scrivania, utilizzare delle imbottiture specifiche per proteggere le ginocchia e piegare le gambe quando ci si alza o si solleva un peso (soprattutto se si praticano attività lavorative ripetitive e pesanti), evitare sforzi eccessivi o carichi troppo pesanti, riscaldare bene i muscoli prima di qualsiasi attività sportiva, sviluppare un equilibrio volto al mantenimento di una corretta postura, non tenere la stessa posizione troppo a lungo ed, infine, cercare di evitare il sovrappeso. Quando la borsite non è determinata da un evento traumatico, però, è opportuno rivolgersi al proprio medico curante per escludere eventuali patologie correlate come per esempio l’artrite reumatoide o la gotta. Come diagnosticare una borsite? Generalmente è sufficiente una visita specialistica grazie alla quale identificare i segni e i sintomi del problema anche ricorrendo, se ce ne fosse bisogno, ad ulteriori indagini di tipo strumentale: radiografia (per escludere fratture o alterazioni a livello osseo), ecografia (per confermare il contenuto della borsa), risonanza magnetica nucleare (qualora ci fossero ancora dei dubbi) ed esami del sangue (per l’analisi del liquido sinoviale e per accertare la presenza di eventuali agenti patogeni responsabili dell’infezione). Riguardo, infine, ai trattamenti disponibili per la cura della borsite, una volta accertata la diagnosi, esistono molteplici percorsi di cura per sconfiggerla. I trattamenti differiscono in relazione al grado di severità del quadro clinico e in presenza di eventuali complicazioni. Se la borsite è di grado leggero può essere sufficiente applicare del ghiaccio, osservare un periodo di riposo, assumere degli antinfiammatori per attenuare il dolore o optare per una benda elastica compressiva al fine di contenere il disagio prodotto dal movimento. In altri casi, però, può essere necessario procedere all’aspirazione del liquido sinoviale contenuto nella borsa infiammata ed eventualmente sottoporsi ad un ciclo di infiltrazioni a base di corticosteroidi in modo da spegnere l’infiammazione e ridurre il rischio che si formi nuovamente. Quando, invece, è opportuno assumere antibiotici? Sono necessari se gli accertamenti diagnostici indicano la presenza di un’infezione. Ma se il dolore non dovesse dar tregua, oltre a quanto descritto, è possibile ricorrere ad applicazioni di terapie fisiche locali come la laserterapia, la crioterapia o gli ultrasuoni. Nei casi più gravi, infine, soprattutto quelli che tendono a recidivare, è consigliata l’asportazione chirurgica della borsa infiammata. In ogni caso è fondamentale, soprattutto quando non vi sia una chiara origine traumatica, escludere eventuali patologie concomitanti che possono essere alla base della borsite.

Camminare sulle proprie gambe a poche ore dall’intervento di protesi di anca o di ginocchio? Grazie al Fast Track si può!

Alzarsi in piedi, muovere i primi passi da soli a poche ore dall’intervento di chirurgia protesica dell’anca o del ginocchio è possibile, grazie al programma riabilitativo di Fast Track, già sperimentato con successo nel Nord Europa. Con questo termine si indica un protocollo di degenza clinico-assistenziale rivoluzionario gestito da un team di professionisti ideato per ottimizzare ogni fase del percorso di cura del paziente, dal pre-ricovero fino al rientro a casa. Qual è l’obiettivo? Ridurre drasticamente i tempi di degenza: attraverso una tecnica chirurgica mini-invasiva e un’anestesia spinale leggera si può garantire un recupero veloce e ottimale delle funzionalità motorie del paziente operato, evitando l’uso di cateteri e drenaggi e riducendo il dolore. In questo modo, già dopo un paio d’ore dall’intervento, il paziente assistito da fisioterapisti e infermieri può già camminare, andare in bagno e anche mangiare. Studi confermano che il grado di soddisfazione dei pazienti operati secondo il programma Fast Track è superiore alla media!

L’importanza del team work nel Fast Track

Restando in tema di Fast Track, ovvero il protocollo rivolto ai pazienti che devono sottoporsi ad un intervento di protesi di anca o di ginocchio, per ridurre i giorni di ricovero e assicurare al paziente appunto una rapida ripresa, è necessario soffermarsi sull’importanza del lavoro di squadra di un team multidisciplinare che garantisce il raggiungimento del risultato con il massimo supporto. L’équipe è composta da chirurghi ortopedici e anestesisti: insieme studiano il planning dell’intervento, valutano il rischio operatorio, scelgono il tipo di protesi e l’anestesia più adatta per assicurare un risveglio veloce e per limitare il dolore. Poi ci sono il fisiatra e i riabilitatori fisioterapisti, che guideranno il paziente in una serie di esercizi utili a compiere le attività quotidiane, rafforzare le articolazioni e riprendere la mobilità degli arti il prima possibile. Infine, ma non meno importante, nel team work del Fast Track un ruolo essenziale viene svolto anche dallo psicologo, che supporta gli stati emotivi del paziente, e dall’infermiera, che segue ogni fase vissuta dal paziente dal momento del ricovero fino alla dimissione. Tutto ciò per favorire il percorso di riabilitazione della persona che la porterà, step by step a riprendere le sue piene capacità motorie dopo l’intervento e a migliorare la sua qualità di vita.

Parliamo di… chirurgia artroscopica!

L'etimologia del termine artroscopia deriva dal greco “arthron” che significa articolazione e “skopein” che vuol dire esaminare. Diversamente rispetto a quanto avveniva in passato, quando per intervenire sulle articolazioni era necessario aprirle chirurgicamente, oggi grazie alle più moderne tecniche è sufficiente effettuare una piccola incisione cutanea. Ecco spiegata la chirurgia artroscopica: un intervento chirurgico minimamente invasivo che viene eseguito per diagnosticare e curare i disturbi che coinvolgono le articolazioni di spalla, gomito, polso, anca, ginocchio o caviglia. L’intervento viene effettuato mediante uno speciale microscopio di piccole dimensioni, chiamato artroscopio: un sottile tubo metallico di dimensioni simili ad una cannuccia che sulla parte finale presenta una luce e una telecamera. Il dispositivo trasmette le immagini ad un monitor in modo che, in sala operatoria, il chirurgo possa vedere all’interno dell’articolazione e operare le zone lese o danneggiate. Quali sono i vantaggi della chirurgia artroscopica? Poiché la strumentazione usata è miniaturizzata, la tecnica richiede solo piccole incisioni cutanee, ciò significa che il decorso post – operatorio è più rapido e meno doloroso, la cicatrizzazione più veloce e, diversamente da un intervento tradizionale, il paziente può far ritorno a casa già dopo poche ore dall’intervento riprendendo le proprie attività nel giro di alcune settimane.

Spalla, anca e ginocchio: quando i dolori sono causati dal passaggio dalla quadrupedia alla forma eretta

Il dolore alla spalla, all'anca e al ginocchio sarebbero così frequenti tra gli esseri umani perché diretta conseguenza del passaggio dalla quadrupedia alla forma eretta. In futuro il rischio di incappare in problematiche di natura articolare potrebbe aumentare ma la fisioterapia può aiutare. Ognuno di noi convive con dolori più o meno ricorrenti o, in alcuni casi, con patologie più serie causate da traumi o incidenti.

Cosa si intende per chirurgia protesica e per quali problematiche è indicata?

Si tratta di una chirurgia che offre la possibilità di sostituire un'articolazione dolente e funzionalmente limitata per usura o per traumi, ripristinando in tempi rapidi una funzione quasi del tutto normale. È indicata per tutti coloro che hanno usurato il ginocchio. Le cause sono molteplici: alcuni per predisposizione genetica, altri per l'età, qualcuno per il lavoro svolto negli anni, altri ancora per traumi subiti in passato (coloro, per intenderci, che in età adulta ravvisano problemi che li limitano nella vita di tutti i giorni).

Efficacia delle protesi?

Le statistiche confermano l'efficacia e la durata dell'impianto protesico nell'88% dei casi. Calcolando che poi, più si sale d'età, minore è il tempo di utilizzo, possiamo affermare con ragionevole certezza che una protesi fatta intorno ai 65 anni ha buone probabilità di non dover essere sostituita. Se, invece, un paziente si sottopone ad una protesi prima, allora, può essere necessaria una revisione nel tempo. Rispetto al passato, complice lo sviluppo della tribologia (la scienza che si occupa dello studio degli attriti), sono stati fatti significativi passi in avanti. Oggi le protesi sono normalmente costituite da leghe metalliche in cromo, cobalto e molibdeno, associate a plastiche mediche in polietilene.

Quali sono le articolazioni più colpite dai dolori durante la menopausa?

La riduzione degli ormoni estrogeni durante la menopausa può causare l'insorgenza di dolore soprattutto al ginocchio, all'anca e alla spalla. Ne sanno qualcosa le donne che hanno compiuto 50 anni, età generalmente indicata per lo sviluppo di questa condizione. In questo periodo non è inusuale, infatti, avvertire dolori al ginocchio, all’anca o alla spalla: nella maggior parte dei casi sono favoriti dalla riduzione degli ormoni estrogeni che normalmente giocano un ruolo importante sull’idratazione dei legamenti, dei muscoli, della cartilagine e sulla densità dell’osso. In relazione, però, alla diversità dei trattamenti è consigliabile ipotizzare una visita dal proprio ortopedico di fiducia per scongiurare altre patologie come usure o lesioni articolari.

Chirurgia mininvasiva: quali benefici per i pazienti?

L’obiettivo di tutti i chirurghi negli ultimi anni è quello di abbreviare considerevolmente i tempi di recupero post-operatorio sia nelle età più avanzate - per ridurre il più possibile il trauma chirurgico, l’allettamento e l’immobilità in questi pazienti - sia nei giovani - che richiedono di poter tornare alle occupazioni lavorative e ludiche in tempi sempre più brevi. Da qui nasce il concetto di chirurgia mininvasiva o meglio di chirurgia a risparmio tissutale, che non consiste nell’utilizzo da parte del chirurgo di tagli cutanei piccoli, ma che deve mirare a minimizzare il trauma chirurgico ai tessuti periarticolari (muscoli, vasi, nervi) in funzione di un più precoce e meno impegnativo recupero post-operatorio.